Paolo Panetto

Architetto, Treviso

Apnea

Mi sono tornati alla mente, recentemente, alcuni fatti successi quindici anni fa che, riletti in questo periodo di mobilità forzatamente limitata e di frequentazioni ridotte al nucleo familiare, risultano molto difficili da replicare in una prospettiva a breve termine. Quindici anni fa vivevo a Lisbona, una città bellissima scolpita dalla luce bianca e pura dell’Atlantico. Di una purezza rara e incantevole, uno spazio solido e introverso con il potere di snaturarsi e aprirsi verso l’esterno cercando aria negli stretti spazi aperti o lungo le rive del fiume Tejo. Scoprii che la gente ha la capacità di vivere lo spazio aperto in modo creativo e libero, quasi con la stessa complicità e naturalezza che ha nel vivere all’interno delle proprie abitazioni. Frequentavo un circolo culturale chiamato ZDB, Galeria Zé dos Bois, vicino al quartiere dove vivevo, dove si potevano vedere ottimi concerti e mostre d’arte. Il 2005 era l’anno del loro decimo anniversario e venne organizzata una grande festa. Vennero invitati gli Animal Collective a tenere un concerto e, ovviamente, la notizia cominciò a diffondersi oltre la cerchia dei frequentatori dello ZDB. Gli spazi del circolo non erano adatti e gli organizzatori dell’evento cominciarono a diffondere, insieme all’invito, la voce che il ritrovo per la festa fosse la stazione di Cais do Sondré, al terminal dei Ferry in riva al Tejo. Io e il mio amico e collega Pedro cominciavamo a interrogarci sulla reale possibilità che ci fosse un concerto in un luogo evidentemente non adatto a un evento simile. La sera del concerto insieme ad altre centinaia di persone eravamo puntualmente nel luogo convenuto. La stazione era piena di persone in attesa. Non vi era un palco. Non vi erano strumenti. Non vi era un impianto luci. Solo la stazione. Ad un certo punto arrivarono i Ferry e tutti fummo invitati ad imbarcarci. Non fu comunicata la destinazione, nessuna indicazione sui tempi di navigazione. L’apnea. Arrivati all’altra sponda del fiume, sbarcammo e una folla allungata si recava lentamente e allegramente in un magazzino anonimo. Iniziò il concerto e ci fu un boato quasi liberatorio di un migliaio di persone che avevano vissuto in apnea quel viaggio di una ventina di minuti. Apnea. Transitoria sospensione della respirazione polmonare. Stiamo vivendo in una sorta di apnea che ci sta impedendo le attività sociali fondamentali. Incontrarsi, parlarsi, toccarsi[1]. Un’atmosfera quasi militarizzata nel fare la spesa o nel passeggiare. Siamo costretti in casa e ci è negato, di fatto, di uscire con libertà di movimento se non attraverso filtri (mascherina e guanti in lattice) o il rispetto di distanze obbligatorie (due metri). Ritorna quel ricordo di Lisbona. Le finestre e le porte sono l’invito a uscire, a portar fuori ed espandersi nella città e nel paesaggio. Stiamo già sperimentando però, come molte delle nostre case non siano adatte ad accoglierci per la totalità della giornata e come gli spazi aperti polverizzati sulla superficie delle nostre città non siano adeguati e accoglienti. “Abitare è in ogni scala, un incontro riuscito tra spazio e spazialità. Se dunque si definisce l’abitare come la capacità di rendere compatibili attori e ambienti spaziali, si capisce immediatamente che in una società di individui, questa messa in tensione è uno snodo essenziale: gli spazi, inglobando, prefigurano gli attori, ma questi, per quanto inglobati, influiscono sui loro ambienti spaziali attraverso la propria spazialità[2]”. Si tratta di educare alla cultura dell’abitare lo spazio, sia interno – abitazioni – che la sua estensione verso l’esterno – lo spazio aperto. “Oggi più che mai abbiamo bisogno di rivendicare le nostre case e i nostri paesaggi, sia fisici che mentali, in modo da riabitarli e (ri)svilupparli in modo sensato. (…) La vera sfida ideologica è che dobbiamo farlo con minori risorse, con meno produzione e con meno infrastrutture[3].” Obbligare a indossare filtri, mantenere la distanza, o semplicemente stare a casa, sono tre cose impossibili per la cultura e la socialità umana. Ci viene chiesto l’impossibile; la popolazione sta rispondendo responsabilmente ma questa esperienza ci marchierà a fuoco. Viviamo in apnea e stiamo attraversando un periodo compressi in uno spazio ristretto e senza meta, come in quell’imbarcazione sul Tejo.


[1]Negli anni Sessanta l’antropologo Edward T. Hall ne “La dimensione nascosta” studiava la giusta distanza relazionale all’interno di una comunicazione verbale o non verbale, in relazione alle convenzioni sociali o culturali. Hall individua in una misura che varia tra i 45 e i 120 cm la distanza di relazione ideale per una relazione tra amici.

[2]Jacques Lévy, Lui casaseggia, lei paeseggia, noi abitiamo (forse), in Matteo Meschiari, Disabitare, Meltemi, Milano 2018 – p. 142

[3]Sami Rintala, Camminata in un paesaggio, in Matteo Meschiari, Disabitare, Meltemi, Milano 2018 – p. 148